13. Mayday
01-05-2020 | quarantena
Alza gli occhi dal libro e guarda la galleria degli affetti appesa al muro. Fotografie slavate dei tempi andati. In famiglia da bambino. Suo padre in cima al Rocciamelone quando già il vivere gli era venuto a fatica. Al mare con gli amici l’estate del diploma. Il giorno della laurea in cui sua madre è tutta orgoglio. Ai piedi della Mole abbracciato ad Amos Oz dopo che gli ha mostrato Torino. Degli ultimi quindici anni non ha immagini. La colpa potrebbe anche essere del digitale, ma la realtà è che non ha ricordi recenti degni di uno scatto.
Si rilassa contro lo schienale e sbuffa.
È una settimana che ci dà dentro con il francese. Studia sul manuale del liceo. L’obiettivo sono quattro capitoli al giorno, esercizi compresi. Vuole stamparsi la grammatica in testa per il quattro maggio, la fine della quarantena. Vuole ripassare la lingua per essere pronto alla riapertura. Vuole allargare il suo portafoglio di visite guidate. Vuole accompagnare anche i turisti d’oltralpe. Ha già in mente la battuta per rompere il ghiaccio: il Piemonte è come la Francia ma con vini e formaggi migliori, ah ah. Studia ogni giorno, dalla colazione alla cena, poi si guarda un film in lingua. Ha un programma fitto dal ritmo forsennato. Per completarlo non può saltare un giorno. Ma oggi è il Primo Maggio, la festa dei lavoratori, e non lo aveva considerato.
Stiracchia le braccia e guarda l’ora. Mezza giornata è volata. Tempera il lapis e le matite blu, gialla e rossa con cui ha evidenziato gallicismi, frasi interrogative e concordanze dei tempi. Decide che può bastare. Da quando fa la guida si è sempre tenuto libero il Primo Maggio. Vent’anni di carriera, venti feste dei lavoratori trascorse manifestando. Raduno in Piazza Vittorio, partenza del corteo, solcare lento di via Po, musica martellante dalle casse del furgone degli autonomi, striscioni sindacali, bandiere No Tav, via Roma, le cariche dei celerini all’imbocco di San Carlo, il panino e la birra con i compagni ai Giardini Reali. La giornata più bella dell’anno. Mai avrebbe pensato di trascorrerla a casa, solo.
Si alza, prende il telefono. Vorrebbe parlare con qualcuno, poi ci ripensa. Sono giorni che ignora squilli e messaggi. Sa come andrebbe a finire: sconforto e lamento. Non vuole costringere nessuno a sentire le sue cassandre. Non vuole sentirle nemmeno lui. Per questo si è tuffato nello studio. Non pensare al peggio e tirare fuori il meglio da quei giorni privi di vita. Affaticare la mente, non permetterle di elaborare, riempire il pozzo profondo che unisce alba a tramonto. Reggere fino alla fine della quarantena e ripartire. La scrivania è un ammasso di libri aperti, dizionari, fogli, appunti. Studiare con rabbia, studiare con foga, non pensare al domani.
Ma sa che è tutto inutile. Il covid ha divorato il turismo, il lockdown lo ha deglutito. Non ci sarà lavoro per un anno e non se lo può permettere. Può reggere fino all’estate. Può stiracchiare il conto in banca fino all’autunno. Può indebitarsi e tirare a campare, ma sa che per lui è finita. A quarantacinque anni è fuori dal mercato del lavoro. Non ha nessuno. Non ha nulla. Non ha futuro. La sua vita è un codice Ateco non necessario.
È il Primo Maggio. Il quattro si allenta la quarantena e i sopravvissuti usciranno pallidi e adiposi dal letargo. Torneranno a masticare le loro esistenze a distanza, certificati e mascherati. Lui no, continuerà a stare a casa. Per lui la quarantena non avrà fine.
Mayday.
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