10. Contagio

24-04-2020 | quarantena

Germana socchiude la porta e guarda dalla fessura la spalla del marito sussultare alla luce della lampada. È coricato su un fianco, ma capisce dalle coperte che si è sollevato su un gomito. Vede la testa argentea muoversi rapida avanti e indietro a ogni colpo. Vede i capelli secchi, radi, fili di ragno. Spalanca la porta e fa due passi nella stanza. Il marito si gira di tre quarti a guardarla, gli occhi spiritati, e tende il braccio destro con il palmo rivolto verso di lei.
«Ferma» dice, e riporta la mano a pugno verso le labbra per tossire ancora. Lei fa un altro paio di passi ma l’uomo tossisce qualcosa che prende per un “non ti avvicinare”. Si ferma e non sa cosa fare. Vorrebbe reggerlo mentre tossisce, porgergli il bicchiere d’acqua che sta sul comodino o rendersi utile in qualche modo. Ma non vuole irritarlo mentre tossisce secco, dunque rimane ritta ai piedi del letto a tormentarsi le mani in vestaglia, nel cuore della notte.

Non sa dire quando abbia avuto inizio. Forse una settimana prima, forse di più. Lo ricorda tossire sul divano. È andata avanti così, per qualche giorno. Tosse, un po’ di stanchezza. Lui diceva che non era niente, e dopotutto non aveva febbre. Poi sono arrivati i dolori alle ossa, la debolezza, la perdita dell’appetito. Ma non ne voleva sapere di chiamare la dottoressa. Non è coronavirus, diceva. Poi la febbre è salita, il respiro è divenuto affanno e il sonno ha ceduto alla tosse. Da un paio di giorni le ha intimato di stare distante e, senza che nessuno dicesse nulla, hanno iniziato a dare per certo il contagio. Si è trasferita a dormire di là, sul divano, e per la prima volta in sessant’anni non si coricano più assieme. Quando entra in camera a vedere come sta indossa la mascherina e dopo che ha toccato qualcosa si lava le mani con attenzione.

«Perché piangi?» chiede lui. La tosse si è placata. Si siede nel letto, la schiena appoggiata alla testiera. Allunga la mano verso il comodino per prendere il bicchiere. La polvere danza nella luce della lampada e i suoi gesti sono lenti, faticosi.
«Non sto piangendo» risponde lei. Fa il giro del letto per aiutarlo e lui si ritira istintivamente.
«Non avvicinarti.»
«Non m’importa» dice decisa. Prende il bicchiere, si siede sul bordo del letto e glielo porge.
«Sei matta?»
«Mi devo prendere cura di te.»
«Ci manca solo che te lo becchi tu.»
«Non sappiamo nemmeno cos’hai.»
«Lo sappiamo benissimo.»
«E come lo hai preso?»
«Boh? Dall’aria, dall’ascensore, dai negozi. Che importa?»
«Dovremmo chiamare la dottoressa.»
«No. Guai a te.»
«Sei il solito testone. Dobbiamo vedere cos’hai. Magari è qualcos’altro.»
«E cosa? Mi sono mai preso l’influenza? Neanche il raffreddore mi viene.»
«Chiamiamola, saprà cosa fare.»
«Te lo dico io cosa ci dice, che devo andare in ospedale.»
«E allora?»
«Non ci voglio andare.»
«Non essere sciocco.»
«Non voglio andare in ospedale» dice voltandosi dall’altra parte. «Voglio morire a casa.»
La moglie gli poggia una mano sulla spalla, piano.
«Ecco, ora sì che piango se fai così.»
«Non voglio finire là. Posso decidere dove morire, no?»
«Giulio, ma cosa dici?»
Il corpo dell’uomo riprende a sobbalzare. Si raggomitola su se stesso e soffoca la tosse nel cuscino. La moglie allontana la mano. Lo guarda senza sapere cosa fare e si asciuga le lacrime con il polsino della vestaglia. La schiena è sconquassata, la tosse è una raffica continua, un colpo non ha tempo di finire che inizia un altro. Poi, a fatica, l’attacco si placa e il marito riprende fiato respirando rumorosamente. Si volta a guardarla e le sorride.
«Vedi cosa succede a farmi arrabbiare?»


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